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Editoriale

Rivolta e disperazione nella Francia di Nahel

di Giordano Cotichelli

L’altoparlante annuncia che, a causa di lavori di manutenzione, le fermate in prossimità dell’Hotel de Ville saranno temporaneamente chiuse ai passeggeri. È giovedì 29 giugno e Parigi, nonostante tutto, non mostra grossi segni di inquietudine. Il giorno prima, lungo la linea suburbana della RER A, quella che collega le periferie orientali con quelle occidentali, la vita è scorsa normalmente. Alle fermate dell’Università di Nanterre salgono e scendono studenti e passeggeri di ogni tipo. Nulla lascia presagire il campo di battaglia che di lì a poche ore dilagherà per le banlieue, coinvolgerà la capitale francese e si allargherà a macchia d’olio ai principali centri urbani del paese. Ed oltre, fino in Belgio e in Svizzera.

Si chiamava Nahel

metro di parigi

"Il governo ha mobilitato circa 45.000 fra poliziotti e militari, in pratica una guerra (civile?) a bassa intensità. Si parla di oltre 3.000 arrestati".

I fatti sono noti. Nella notte del 27 giugno, durante un fermo di polizia, è stato assassinato un ragazzo di 17 anni. Si chiamava Nahel. Le immagini tragiche del fatto sono visibili su tantissimi social. E dai social è esplosa la protesta alimentata da un disagio profondo che cova da tempo.

La polvere delle disuguaglianze sociali, nascosta sotto il tappeto della posticcia Francia di Macron, si è trasformata in dinamite, ed ha preso fuoco.

Al momento in cui si scrive è difficile dire come e quando la rivolta in corso finirà in quanto la morte di Nahel è stata l’ennesima goccia che ha fatto traboccare un vaso stracolmo.

Già riempito dal rifiuto della legge sulla riforma pensionistica, accresciuto in precedenza dalle proteste dei gilet gialli e dalle riforme dello stato sociale che ha visto tagli alla scuola, alla previdenza, all’assistenza e alla sanità. Storia nota anche in Italia.

La pandemia ha solo posto un momentaneo stop alla rabbia infinita, quotidiana, endemica nelle banlieue francesi. Non luoghi dove manca di tutto. In cui si impara presto a proprie spese che non si ha né la lingua, né il colore della pelle, né il credo religioso appropriati per poter avere qualche speranza di una vita migliore in una società classista, razzista e fortemente stratificata.

Se guardate la composizione del governo francese attuale, prima ancora di porre attenzione alle appartenenze politiche, leggete i cognomi, guardate i volti, soffermatevi sull’ennesimo blanchiment di una democrazia che ha insegnato molto al mondo, ma che ha razziato ulteriormente tanto dallo stesso mondo e dai suoi abitanti.

Se si va verso la periferia est della città, quasi a ridosso dello zoo, c’è il Museo dell’Immigrazione. Una bella strutturata sorta al posto dell’esposizione coloniale del 1931, un po’ per ripagare il male fatto come francesi e come europei, un po’ per riconoscere come la Francia sia da sempre un paese cresciuto grazie alle tantissime risorse dell’emigrazione che dall’epoca moderna ad oggi l’attraversano.

Italiani e spagnoli, portoghesi e jugoslavi, bulgari, polacchi, russi, sudamericani, magrebini e africani da ogni dove. Una migrazione spesso legata all’esilio politico, alla lotta antifascista, o alla fuga dalle tante guerre e miserie di ogni luogo, di ogni tempo.

harriet tubman quadro

Se si guarda all’emigrazione italiana addirittura viene ricordata la figura di Pertini e di Cristina Trivulzio di Belgioioso.

Se si ritorna poi verso il centro della città, nel quartiere del Marais, zona storica di rifugio per gli ebrei, c’è il Museo Picasso dove si ritrova, nelle ultime giornate di un giugno di rivolta, una personale d’arte di Faith Ringgold, pittrice afroamericana che mostra tutto il carico di sofferenza umana dietro la persecuzione razziale a carico dei neri d’America.

Fra le tante opere esposte c’è un trittico dal titolo: “Coming to Jones Road” (2010) in cui su tele dalla forma di coperte trapuntate si ritrovano i volti di Martin Luther King, Sojourner Truth e dell’infermiera e ribelle Harriet Tubman.

All’interno del museo Picasso o di quello dell’immigrazione non arriva però il suono delle sirene che dilagano in un crescendo di rivolta sociale, per le strade della capitale.

Già da venerdì 30 giugno Place de la Concorde ha iniziato ad essere presidiata per evitare assembramenti di sorta. Nel tardo pomeriggio è stata violentemente sgombrata. Poi, durante la notte, il suono delle sirene è stato continuo, udibile in ogni dove della metropoli francese.

Al mattino la topografia del disagio sociale si manifestava in maniera direttamente proporziale alla prossimità con la sofferenza: qualche scritta solidale che chiedeva giustizia per Nahel, nelle zone più centrali della città, negozi saccheggiati ed incendiati (assieme a auto, cassonetti e molto altro) man mano che ci si avvicinava alle aree più povere.

Il governo ha mobilitato circa 45.000 fra poliziotti e militari, in pratica una guerra (civile?) a bassa intensità. Si parla di oltre 3.000 arrestati, in larga parte giovani e giovanissimi carichi di rabbia, di voglia di riscatto sociale e di ribellione generazionale. I media hanno diramato appelli alle famiglie ritenute responsabili dei comportamenti criminali dei figli.

Scelta sbagliata ed inutile in una società e in un mondo dove la famiglia e la scuola non sono più i soggetti centrali della formazione e dell’educazione, sostituiti dalle promesse false dei social e della reclame di ogni prodotto vendibile in nome del profitto social, e forgiati poi dalla strada, dall’alienazione e dalla frustrazione di essere destinati ad un futuro… senza futuro.

La situazione è talmente grave che gli arrestati vengono giudicati per direttissima. Basta poco per essere accusati di gravi reati e vedere come la voglia di partecipazione democratica, di rappresentanza, di poter urlare la propria rabbia e il proprio dolore per la morte di Nahel, diventino un ulteriore strumento di esclusione e stigma sociale.

La macchina della repressione e della giustizia marciano a passi veloci. La violenza deve essere arginata. La rabbia deve tornare a covare sotto il tappeto senza arrecare ulteriori danni. Almeno fino alla prossima esplosione.

In attesa di un’altra notte di scontri intanto a Parigi gli Champs Elisée sono stati posti d’assedio, nella notte di sabato scorso e le principali tratte della metro chiuse dalle 22 alle 6. I media e le varie forze politiche hanno fatto dichiarazioni di ogni tipo. Qualcuno ha ricordato che lo scorso anno sono state uccise altre 13 persone in circostanze simili a quelle che hanno portato alla morte di Nahel.

I fautori dell’ordine transalpino e cisalpino sbraitano di invasioni razziali e guerre di religione. In tanti deplorano la violenza e chiedono tolleranza zero. Come finirà questa storia non è difficile da immaginare. Basta entrare e salire le scale di uno dei tanti alveari delle periferie.

L’odore di verdura marcia ti prende alla gola appena entri, poi mano a mano che sali scale sudicie e corridoi dimenticati, l’odore acido della povertà ti ricorda dove sei. Gli occhi ti fanno vedere la nullità degli ambienti dove manca di tutto, dove tutto è rotto: finestre, gradini, porte, ascensori, e molte anime degli stessi redidenti.

L’intimità di una vita personale o familiare è violata da urla e grida di ogni sorta, e la miseria e la disperazione rimbombano in un frastuono silenzioso che farebbe impazzire chiunque. In queste case, in queste vie, in questi quartieri scifati prima ancora che abbandonati dagli uomini di potere, e anche da ogni dio partorito dall’umano sapere, si impara a leggere e a scrivere sui tasti degli smartphone, perché l’istruzione è negata.

Ci si cura con l’attesa della scomparsa dei dolori o dell’arrivo della signora vestita di nero. Ci si sostiene con la follia dell’amore, anche quello a pagamento, con la legge del ricatto sociale che ormai domina su tutto una volta perduta la “esse” di speranza che poteva alimentare una qualche idea di riscatto sociale.

C’è molto ancora da dire: fare la conta dei danni umani e materiali, leggere cifre e dati, piangere le vittime. Un lavoro da fare se e quando servirà, sorretti magari dalla visione di un film di quasi trent’anni fa, vincitore a Cannes, dal titolo “L’Haine” (L’Odio) che parla proprio della vita e della rabbia nelle banlieue parigine. Per il momento però non resta che fermarsi qui e chiudere con i versi della Canzone del Maggio, quella di Fabrizio De André, tratta dalla versione francese che faceva da colonna sonora alle rivolte operaie e studentesche del ’68. Ecco un piccolo passaggio:

E se nei vostri quartieri / Tutto è rimasto come ieri / Senza le barricate / Senza feriti, senza granate / Se avete preso per buone / Le "verità" della televisione / Anche se allora vi siete assolti / Siete lo stesso coinvolti / E se credente ora / Che tutto sia come prima / Perché avete votato ancora / La sicurezza, la disciplina / Convinti di allontanare / La paura di cambiare / Verremo ancora alle vostre porte / E grideremo ancora più forte / Per quanto voi vi crediate assolti / Siete per sempre coinvolti / Per quanto voi vi crediate assolti/ Siete per sempre coinvolti

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