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Editoriale

Intorno alle parole di Parsi su infermieri ed empatia

di Monica Vaccaretti

Ricordo quando l'infermiere mi ha lavato per la prima volta. Con una spugna. Mi sembrava come nell'Iliade, quando lavano il corpo del morto. Mi ha colpito l'estremo rispetto per una persona che in quel momento dipende completamente dagli altri. È una sensazione che un adulto sano, con una vita attiva, non sperimenta. Mi ha confortato nell'idea che gli esseri umani sono naturalmente empatici. In fondo è quello che fa la democrazia, un sistema gentile: aiuta ad esercitare l'empatia. Così Vittorio Emanuele Parsi, noto politologo italiano, nell'intervista rilasciata al Corriere della Sera a distanza di quasi due mesi dal malore che lo ha colpito a Cortina d'Ampezzo lo scorso 27 dicembre, in cui racconta la sua esperienza e ringrazia infinitamente tutti i sanitari degli ospedali di Belluno e Treviso per avergli salvato la vita.

Sono le parole di un uomo che era quasi morto

vittorio emanuele parsi

Vittorio Emanuele Parsi, politologo italiano

Durante la convalescenza, una volta tornato a casa, il professore di Relazioni Internazionali presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nonché esperto di geopolitica, ha trovato il tempo di ricordare tutto il personale sanitario che si è preso di cura della sua persona, restituendolo alla sua vita e ai suoi affetti.

Ne elogia la tempestività nei soccorsi dopo aver accusato i primi forti dolori al petto, tre colpi al diaframma come fosse in apnea, ultimi avvertimenti prima che sia troppo tardi. Per aver formulato con accuratezza la diagnosi, dissezione dell'aorta.

Per avergli dato il tempo di fare due telefonate, prima di essere trasportato d'urgenza in elicottero al Capovilla per essere sottoposto ad un delicato intervento al cuore. Per essere stati franchi: dobbiamo fare un'operazione salvavita e può andare male. Per essere riusciti invece a farla andare bene.

E poi per aver fatto tutto il resto, dall'assistenza di base al suo letto sino alla riabilitazione, passando di mano in mano. Da quella dell'infermiere a quella del medico, da quella del cardiochirurgo sino a quella dell'operatore socio sanitario, ripetutamente a seconda del contesto e del momento di cura. Alternativamente, come è abituale in un’équipe multidisciplinare. Sinergicamente, per raggiungere l'obiettivo di salute secondo il piano terapeutico.

Racconta che, mentre aveva la percezione di essere nell'Ade dove stanno le anime morte e di trovarsi in uno Stige nero e melmoso in cui vedeva le radici degli alberi da sotto come si trovasse in un crepaccio, sentiva i medici della Terapia Intensiva parlare tra loro della sua condizione: lo estubiamo oggi, lo estubiamo domani.

Era un corpo attaccato ai tubi che tornava lentamente alla sua consapevolezza dopo aver ripreso coscienza. Nel tanto tempo trascorso a guardare passare i quarti d'ora, ha osservato il lavoro dei sanitari.

Nella sete che lo opprimeva, una volta rimosso il tubo endotracheale, ha vagato con lo sguardo nel loro ambiente fissandosi su un bellissimo lavabo di acciaio dove medici ed infermieri erano soliti lavarsi le mani con tanta profusione d'acqua. Quando si arriva a pensare di attaccarsi sotto alla manichetta per lenire l'arsura e di essere portato via a forza, come racconta, un uomo capisce l'essenziale.

Quando sente che è come rinascere quando gli tolgono finalmente i tubi dalle vie aeree e torna a respirare, un uomo riscopre le sue priorità. Quando, una volta tornato uomo, realizza che si strozza anche solo con un cucchiaino d'acqua e che ci vuole tempo per tornare a deglutire, un uomo coglie tutta la sua fragilità. E non chiede altro che essere aiutato per tornare a stare bene.

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