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editoriale

Il Recovery Plan perduto

di Giordano Cotichelli

Bruxelles presto esaminerà le proposte contenute nel Recovery Plan italiano utile a investire importanti risorse europee per ripartire. Molti i commenti che si sono intrecciati in questi giorni, gli appunti, i pareri contrastanti e molte anche le considerazioni rispetto ai vari settori presentati, di cui quello per la salute (Missione 6) apre a diverse valutazioni. I soldi stanziati sembra ammontino a 20,2 mld da investire al fine di dare una forte spinta propulsiva alla sanità di prossimità, diffusa sul territorio, vicina ai bisogni.

I numeri del Recovery Plan

Il Recovery Plan va letto insieme al contesto che lo ha generato: la pandemia Covid-19

I numeri parlano di 1.288 Case di Comunità, 381 Ospedali di Comunità, 602 Centrali operative territoriali, telemedicina, ADI potenziata e molto altro. Per chi volesse approfondire la questione diversi contributi si trovano in rete, dal testo stesso del piano presentato ai commenti dal sapore trionfalistico e corporativo, fino alle perplessità interessanti e puntuali sollevate dai medici di medicina generale.

Da parte mia vorrei aggiungere qualche strumento in più rispetto a quelli usati, evitando, come sempre, la contrapposizione fine a sé stessa. Credo che, in primo luogo, una buona chiave di lettura del Recovery Plan debba essere essenzialmente legata al contesto stesso che lo ha generato: la pandemia Covid-19. Non può essere altrimenti.

A tal proposito risulta utile il lavoro fatto da Cottarelli e Paudice che, con i dati a disposizione, analizzano l’andamento della pandemia paese per paese per arrivare ad una sintesi che mette in risalto tre fattori caratterizzanti: l’essere stati colpiti per primi, la composizione demografica della popolazione e l’inquinamento atmosferico. Tre fattori che parlano molto di territorio e che aiutano a leggere le criticità presenti, concause della pandemia, sulle quali bisogna riflettere, e bisogna decisamente intervenire, come suggeriscono le altre “missioni” del piano, ma è necessario fare un passo in più.

Quanto è accaduto in Italia, con l’alto numero di vittime e malati, lo stress prolungato dei servizi e degli operatori, la disarticolazione fra centro e periferia nella gestione degli interventi (zone rosse, vaccinazioni, finanziamenti, etc.) impone una riflessione lungo il tracciato delle evidenze fatte da Cottarelli. In sintesi, la salute territoriale si lega all’inquinamento, ma l’organizzazione sanitaria quanto si fa carico di questo?

L’alto numero di morti è stato condizionato dall’alta numerosità di anziani, ma il sistema di cure ed assistenza quanto prevedeva che l’essere anziano, portatore di polipatologie, potesse essere una condizione bisognosa di attenzioni ulteriori? O, al contrario, si è declinata meccanicamente l’assistenza ai settori più fragili in termini di acuzie e cronicità, la prima in cui investire, l’altra dove contenere, tutte necessariamente oggetto di tagli, lottizzazioni, privatizzazioni, clientelismi di ogni tipo.

Per intendersi, si è tratto profitto da tutto ciò che poteva produrlo e si è tagliato al massimo finché si è potuto. Non dimentichiamo che qualche testa d’uovo, che siede in parlamento, o meglio al governo, qualche mese poco prima dello scatenarsi della pandemia affermava che dai medici di medicina generale non ci andava più nessuno; che non servivano più. Ecco, se si è considerato che la cronicità poteva essere assistita da un medico anziché da cinque, o da un infermiere e nove OSS anziché da sei infermieri e sei oss, la lettura delle conseguenze catastrofiche della pandemia è tutta lì, sia guardando all’accaduto sia in prospettiva futura.

Se la medicina del territorio significa ulteriore spezzettamento e privatizzazione dell’offerta, monetizzazione del rischio e taglio delle spese, qualsiasi piano di sviluppo dell’infermieristica territoriale è destinato a fallire

È vero che nel testo della Missione 6 ci sono scritti, quali obiettivi prioritari, l’equità e l’accesso ai servizi, ma sono termini che da almeno vent’anni vengono “copiati e incollati”, in ogni documento possibile ed immaginabile; più vengono riproposti e citati, più sembra vengano disattesi. Come è possibile immaginare lo sviluppo della sanità del territorio e della rete dei servizi, se queste non sono state mai implementate e sostenute appieno?

Una rete di servizi significa riuscire a telefonare all’assistente sociale o parlare con il medico di questo o quel paziente? O qualcosa di più? Qualcuno ha messo in evidenza forse come in molti casi la possibilità, e la necessità, di creare quelli che si chiamano PDTA (percorsi di diagnosi terapia e assistenza) sia stata in molti casi disattesa, qualcosa rimasto in una nicchia per eccellenze sanitarie.

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